Berlin Alexanderplatz fu girato per la prima volta nel 1931 diretto da Phil Jutzi. Nel 1980 Rainer Werner Fassbinder ne diresse una serie televisiva. Ma Berlin Alexanderplatz non è solo questo: è stato – come e forse ancora di più che per Roma La dolce vita – il ritratto per eccellenza della capitale tedesca, un film storico  e soprattutto un romanzo di enorme successo, pubblicato da Alfred Döblin nel 1929 e subito riconosciuto come il romanzo della grande capitale, il suo ultimo forte e disperato urlo di vita prima che il nazismo e poi la guerra la riducessero in cenere e macerie.

Ci voleva del coraggio per proporre in Germania un remake di questo film e una nuova interpretazione del testo. Ci voleva il coraggio di Burhan Qurbani, regista nato in Germania nel 1980 da genitori esuli dall’Afghanistan, capace di uno sguardo alto e sensibile. Esordì alla Berlinale nel 2010 con Shahada, un piccolo gioiello di impegno civile. Nel 2014 ha presentato alla Festa del Cinema di Roma il suo secondo interessante lungometraggio Wir sind jung. Wir sind stark.

Nel 2020 Berlin Alexanderplatz, suo terzo film, è in concorso per l’Orso d’Oro. Questo film è un ritratto crudele ma realistico, un dolente canto corale di disperati che in ogni tempo, da ogni luogo, hanno affollato una metropoli nella speranzosa ricerca di una vita migliore, di un futuro per sé e per i propri figli. La narrazione e l’ambientazione berlinese sono fedeli al testo di Döblin, con le stesse scansioni temporali in episodi e in epilogo. I caratteri del personaggi e i loro nomi sono gli stessi. Diverso è però il colore della pelle, dove Franz era Francis, un rifugiato africano come infiniti altri, senza documenti, ricattabile e manipolabile, spacciatore e pappone, il cui destino pare non poter essere altro che finire nella marginalità e abbracciare la delinquenza.

Non serve aggiungere altro per spiegare come nelle tre ore del film, sia ben rappresentato il tema dell’immigrazione e vi sia la prova dell’universale valore e attualità del romanzo al quale si ispira.

Ottima la prova degli attori, con un commovente Welket Bungué nei panni di Franz e di Albrecht Schuch, un Reinhold che è la grottesca caricatura di quel delinquente manipolatore, che all’epoca del romanzo aveva iniziato da qualche anno la sua carriera politica: Adolf Hitler.