Siberia per un americano come me ha molti significati: solitudine, esilio, freddo, magia..». Così il settantenne regista Abel Ferrara spiega il titolo del suo ultimo film in concorso alla 70° Berlinale, il sesto girato con protagonista Willem Dafoe.

Chi conosce Aber Ferrara non si stupirà della mancanza di una trama tradizionale, che ogni sovrapposizione di piani di lettura sia possibile e che ogni supposizione sia lecita, in primo luogo quella di una sofferta autobiografia. L’unica traccia narrativa è data dall’introduzione della voce narrante che ci conduce indietro nell’infanzia di Clint, il protagonista (Dafoe). Poche frasi per evocare con rimpianto e tenerezza le gite con il padre e il fratello andando a pesca. Da qui parte il viaggio nella mente, condotto da un alter ego dello stesso Clint e ambientato in un misterioso bar-rifugio, isolato, immerso nell’immenso bianco della neve, in una Siberia immaginaria (in realtà le scene sono riprese in Alto Adige).

La natura è avversa, animali sono sempre in agguato ma forse più dentro la coscienza che nella realtà (si veda l’aggressione dell’orso al giocatore della slot machine); importante è l’effetto di mistero e curiosità dato dal non tradurre le lingue delle persone che frequentano il rifugio (inuit e russo) e nemmeno le parole dell’ultima, scena, una stravagante licenza dai risvolti incredibilmente comici. Il registro è ora grottesco ora inquietante, con l’evocazione di rimorsi e rimpianti, tradimenti e violenze, piaceri e avversità, dell’infanzia con vecchie paure e  sensi di colpa, vecchie  ossessioni erotiche e incubi sanguinolenti, diurni e notturni.

Le riprese sono minuziosamente curate, in ambienti tetri illuminati da lame di luce caravaggesca; o nella vastità senza orizzonte della nebbia, sulla slitta trainata da una muta di husky dagli occhi di ghiaccio; oppure in improvvisi trasferimenti nella abbagliante luce del deserto; o ancora in altri improbabili luoghi della memoria e dell’incubo. le inquadrature inquietanti e magnifiche (come l’accostamento tra l’occhio spalancato del pesce e il disco luminoso della luna), dove anche la bruttezza ha un suo significato estetico e esistenziale: il viso rugoso di una vecchia, il corpo flaccido di una prostituta, la poco invitante nudità dello stesso Dafoe.

Un film contraddittorio e difficile, irritante o magnifico, ma dove poco o nulla è banale o prevedibile. Come la struggente apparizione del padre, teneramente ricordato nell’atteggiamento di radersi, con la schiuma da barba sul viso, in contrasto con la spiazzante semplicità del dialogo: “Papà – gli dice Clint – non ricordi che cosa ti ha detto il medico?” “No”. “Che sei morto”.