A Zalava, paesino arroccato su un monte del Kurdistan iraniano, è insediata da tempo una comunità, in precedenza nomade, che ha conservato credenze ataviche e teme in particolare gli spiriti maligni capaci di “possedere” abitazioni e persone. Quando, nel 1978, Zalava pare sprofondare nel caos a causa della presenza di uno di questi pericolosi “geni”, un pragmatico commissario militare della zona cerca di intervenire, scoprendo un mondo perlopiu’ ignoto e di difficile comprensione…

No, non sono specializzati solo nell’esaudire tre desideri come quello benigno – e celeberrimo in Occidente – della lampada di Aladino, i cosiddetti “geni” (jinn) della tradizione mediorientale: ce lo conferma il filone piuttosto fertile dell’horror iraniano degli ultimi anni, incentrato perlopiu’ sulle figure arcaiche, pre-islamiche, degli spiriti maligni che si insinuano tra i muri delle case plasmando la psiche di chi le abita.

Si tratta, certo, di horror molto sui generis: per la sua specificità Zalava, presentato a Venezia nell’ambito della Settimana internazionale della critica e premiato tra i film in concorso nella sezione omonima, nonostante tutte le differenze del caso ha comunque qualcosa in comune con l’apprezzato Under the shadow (2016) di Babak Anvari. E non solo per la provenienza persiana e per il jinn come catalizzatore degli eventi, ma anche perché in entrambi i casi gli elementi sovrannaturali del soggetto – un jinn, appunto, che penetra in delle abitazioni, di città come di campagna – diventano ben presto un pretesto per parlare d’altro, in particolare della società iraniana contemporanea e dei suoi fantasmi (questi sì davvero pericolosi, senza dubbio piu’ di spiriti maligni la cui presenza è suggerita essenzialmente dai turbamenti tutti interiori dei personaggi).

Under the shadow era intriso delle inquietudini di una donna di Teheran, energica e istruita ex-studentessa di medicina allontanata dall’università, a cui stavano troppo stretti il niqab e il piccolo appartamento entro cui era stata costretta insieme alla piccola figlia dal regime degli ayatollah appena insediatosi e già impegnato ad affrontare la guerra contro l’Iraq, in tempi difficili e angoscianti scrupolosamente descritti nelle righe che precedevano i titoli di testa; in Zalava, che si apre anch’esso con una ben precisa collocazione temporale (“1978, due anni prima della Rivoluzione”), siamo ancora nell’Iran relativamente laico dello Scià, di cui il commissariato militare che vediamo nel film costituisce la diretta emanazione nella remota periferia curda. Ne è un’emanazione anche la dottoressa (anche questo dettaglio fa pensare a Under the shadow) che fa del suo meglio per assistere gli abitanti del paesino di Zalava, nonostante il loro scetticismo nei confronti della medicina tradizionale e della donna che la pratica.

Né la dottoressa, né il comandante mandato a Zalava per fare chiarezza sui misteriosi eventi che stanno scuotendo il paesino potranno avere la meglio sulle superstizioni dilaganti tra giovani e anziani che paiono riporre piu’ fiducia nell’esorcista di turno che non nelle spiegazioni razionali pazientemente accampate dai protagonisti, inizialmente poco inclini a credere che il famigerato jinn abbia potuto essere preso prigioniero in un normale barattolo di vetro vuoto, ma poi sempre piu’ in balia di inquietanti suggestioni… Perché in Zalava il conflitto centrale non è quello tra l’uomo e gli spiriti maligni, ma appunto quello tra la razionalità laica e l’oscurantismo pagano (ma quello monoteista di Khomeini non sarà poi così diverso…), riflessi nelle due facce di un paese dove è stridente il contrasto tra centro e periferia, tra “sviluppo senza progresso” e atavica arretratezza.

Nel raccontare il mondo rurale di Zalava, Amiri, qui al suo debutto nel lungometraggio, ha un tocco decisamente originale e intrigante, anche rispetto alle atmosfere essenziali e cameristiche del già citato Under the shadow: è palese il gioco con svariati generi e sottogeneri, dal film di serie B di ambientazione indo-mediorientale alla telenovela (nelle scene sentimentali tra il sergente e la dottoressa), il tutto dietro la patina di un colore ocra che pare fungere da filtro per ogni inquadratura, “sporcata” con la terra e la sabbia di quella terra dimenticata e perlopiu’ incognita che è il Kurdistan iraniano.

Un lavoro davvero interessante, insomma: ci auguriamo che i jinn tornino a bussare alle nostre porte per ispirare, con esiti che a questo punto risultano piu’ benigni che maligni, i registi iraniani della nuova generazione.