Vera e André sono una giovane coppia svedese, nonché business partner nella realizzazione di una nuova app per la tutela della salute riproduttiva femminile. Insieme ad altre startup promettenti, hanno l’opportunità di partecipare a un workshop di alcuni giorni gestito da un famoso coach, in modo da imparare a presentare il loro prodotto in modo più convincente ed attirare investitori. Alla vigilia dell’importante evento, però, Vera si sottopone a una seduta di ipnositerapia per smettere di fumare, e il risultato è che perde tutti i freni inibitori della propria maschera sociale, con risultati tragicomici…

Dopo alcuni corti, lo svedese Ernst De Geer debutta nel lungometraggio con un lavoro sul crinale tra commedia degli equivoci e satira sociale al vetriolo, che, in concorso nella sezione principale del Festival di Karlovy Vary, si è conquistato sia il premio per il miglior attore, sia i riconoscimenti speciali della FIPRESCI e dell’Europa Cinema Labels. E sono meritati, perché De Geer coglie davvero nel segno: la storia raccontata cattura perfettamente lo spirito dei nostri tempi e le sue spinose contraddizioni.

Infatti, se da un lato nell’era dei freelance e delle piccole start-up si punta sempre di più sul cosiddetto ‘personal brand’ e sulla spontaneità della propria esperienza individuale per farsi efficacemente pubblicità sui social e agli eventi promozionali, dall’altro le modalità per assicurarsi visibilità e successo sono stabilite a priori a tavolino e, come ben mostrano le strategie dell’insopportabile e narciso coach al seminario seguito dai due protagonisti, prevedono comunque che si reciti una parte, con conseguenti ansie da prestazione: ne è un esempio, sin dalla prima scena del film, la storia ad effetto sul menarca e sull’emofilia di Vera, inventata di sana pianta per far presa sui potenziali investitori (e tra l’altro il regista, quando mostra i risvolti artificiosi della presentazione dei progetti, pare strizzare l’occhio ai pitching cinematografici con l’obiettivo di trovare finanziamenti per i film in progress, che spesso sono connotati dalle stesse dinamiche).

Paradossalmente, anche se i progetti dei giovani e rampanti startupper sono tutti variamente collegati a problematiche con una portata civile ed etica e a un impegno sociale non indifferente (il cambiamento climatico, la carenza idrica, o appunto l’educazione sessuale tra le donne dei paesi del Sud globale, come nel caso dell’app Epione curata da André e Vera), il meccanismo alla base del loro funzionamento è lo stesso delle grandi e spietate corporazioni, tra competizione sfrenata, carrierismo e ricerca del profitto. Per quanto riguarda André e Vera, il paradosso è doppio perché, nonostante l’impostazione progressista e femminista del loro ‘prodotto’, i due riflettono il tipico rapporto di coppia viziato da un approccio patriarcale duro a morire: d’altronde, la trentenne Vera è stata educata da una madre borghese e conformista (seppur forte e ‘in carriera’, nella migliore tradizione scandinava) ad essere una ‘brava ragazza’ sorridente, riflessiva e giudiziosa, abituata a soddisfare in automatico, e nel miglior modo possibile, le aspettative altrui, e in primo luogo quelle del suo partner nella vita e, fatto ancor più deleterio, al lavoro. D’altro canto, anche André (molto ben interpretato da Herbert Nordrum, già visto nel pluripremiato La persona peggiore del mondo di Joachim Trier, altra storia di una giovane donna nordeuropea alla ricerca della sua vera identità) è imprigionato nelle sue rigidità, in una corazza di finta sicurezza e granitica serietà che celano a fatica complessi profondi e una paura congenita di fare la famigerata ‘brutta figura’.

La liberazione totale cui perviene inaspettatamente Vera, con conseguenze a tratti esilaranti, dopo la seduta di ipnosi, in barba appunto al terrore della ‘brutta figura’ e al conseguente imbarazzo di fronte al consesso sociale, è proprio una radicale reazione alle costrizioni di un’ambiente in cui si predica di continuo l’informalità e l’originalità, ma in ultima analisi viene impedito di essere sé stessi, specie durante le performance attraverso cui ci si vende. L’asettico hotel che fa da sfondo a quasi tutto il film, perfetto esempio di non-luogo nonostante le sue confortevoli camere e l’elegante cocktail bar, è l’involucro perfetto per conversazioni artefatte (persino parlare di ulcera diventa un’occasione per fare pubblicità al proprio lavoro) costantemente vegliate dalla minacciosa ombra della vergogna in agguato: un involucro che Vera squarcia dall’interno, tra la perplessità generale e la goffa disperazione di André.

Certo, può sembrare triste che il prezzo da pagare per aver mostrato apertamente la propria autenticità, scevra dalle convenzioni dell’onnipresente maschera sociale, sia rinunciare alle proprie aspirazioni professionali; gli spettatori sensibili alla tematica di genere, da parte loro, potrebbero rimarcare che in Vera sembrano essere concentrati i vecchi stereotipi sulla proverbiale isteria femminile, quella delle donne incapaci di far coesistere istinto e pensiero razionale, con risultati distruttivi per la propria vita. Nondimeno, lo sfogo finale (e non meno esilarante e dissacrante) di André fa capire che l’abbattimento degli schemi coinvolge entrambi ed è catartico per entrambi. Può darsi che i due non riusciranno più a ricavarsi la nicchia che desideravano nel mondo delle startup svedesi, ma il loro rapporto di coppia ne risulterà senz’altro rigenerato – e, forse, su queste nuove basi potranno germogliare idee ancor più fruttuose, partendo da presupposti alternativi a quelli dati per scontati dal sistema.