Tredici brevi scene per raccontare tredici momenti emblematici della vita in comune di una coppia di trentenni tedeschi negli anni ’20 del ventunesimo secolo. Dina e Michael convivono e decidono di avere figli nonostante tutte le incertezze, i timori e le inettitudini del caso, cercando di fare del loro meglio per essere dei buoni genitori e dei buoni partner l’uno per l’altro. Ma in un’era dove le traiettorie esistenziali non sono piu’ definite come una volta, i dubbi e gli atti mancati sono sempre dietro l’angolo…
Anche quest’anno, alla 55 edizione del Festival di Karlovy Vary, non potevano mancare dei titoli tedeschi nella sezione principale del concorso: oltre a The Prince, storia d’amore sui generis di una coppia tedesco-congolese, un ulteriore racconto con al centro un uomo e una donna, ma su uno sfondo ben diverso, è il nuovo lavoro del bavarese trapiantato a Berlino Dietrich Brüggemann, come sempre coadiuvato dall’insostituibile sorella Anna, co-sceneggiatrice e attrice protagonista di questo e di altri film già ampiamente apprezzati sia alla Berlinale che qui a Karlovy Vary.
Alcuni anni dopo l’acclamato Kreuzweg – Le stazioni della fede (2014), rappresentazione grottesca e spietata del fondamentalismo cattolico, e la non meno grottesca satira sul neonazismo Heil (2015), con Nö i Brueggemann tornano a tematiche già esplorate nel loro precedente (e decisamente piu’ leggero) Tre camere, cucina e bagno (2012) e così facendo si ricollegano anche a soggetti che affiorano piuttosto di frequente tra registi piu’ o meno conosciuti della generazione tra i 40 e i 50 a Berlino e dintorni.
D’altronde, al giorno d’oggi è ben difficile tralasciare questioni ampiamente discusse tra i giovani adulti, la cui presenza è particolarmente spiccata nelle metropoli tedesche complice anche l’arrivo di numerosissimi expat da diversi paesi europei. Per i genitori dei trentenni di oggi la giovinezza finiva a un’età ben precisa (sicuramente prima dei 30) e le tappe del percorso da seguire (lavoro fisso, matrimonio, figli…) erano tracciate a priori, mentre ora sono dati per assodati sia un ampiamento dei limiti anagrafici, sia una maggiore libertà dalle convenzioni sociali, che però hanno un rovescio della medaglia non indifferente, ovvero il naturale moltiplicarsi dei dubbi e delle domande su quale sia, allora, la scelta giusta per sé: il matrimonio ha ancora senso? Si può essere davvero sicuri di volere dei figli se non ci si sente mai pronti ad averli? Vale la pena cambiare lavoro? O è meglio perseverare con i vecchi obiettivi, nella speranza che prima o poi vengano raggiunti? Come fare a definire una scala di valori e di priorità individuali, quando ormai ne manca una collettiva a cui adeguarsi comodamente?
Da queste e da analoghe domande scaturiscono quelli che alcuni acuti spettatori tedeschi hanno battezzato Umzugsfilme, letteralmente “film su trasferimenti”, trasferimenti da intendere in senso letterale (per alcuni la risposta agli interrogativi di cui sopra può arrivare da un trasloco, una casa in campagna da ristrutturare o un periodo da trascorrere in un luogo “altro”, magari all’estero), ma anche in senso astratto, come condizione generale che connota la fluidità delle relazioni, delle attività lavorative ed extralavorative e della propria identità, sempre suscettibile di cambiamenti anche radicali. Nei loro nove anni di relazione, Dina e Michael si trovano anch’essi in una condizione di fluidità, nonostante l’effettiva realizzazione di determinati progetti di vita comuni.
La funzionale suddivisione del racconto in capitoli, prediletta da Brüggemann e già sperimentata spesso nei suoi lavori precedenti, in questo caso porta sullo schermo frammenti catturati in diversi momenti della vita a due (e poi a tre e a quattro) dei protagonisti, con intervalli di tempo irregolari a separarli e con una serie di rimandi interni che ora accentuano i paradossi e le incoerenze nell’evoluzione del rapporto di coppia tra Dina e Michael, ora confermano le aspettative di questi ultimi (e quelle dello spettatore insieme a loro). Pare quasi di spiare la coppia dal buco della serratura, tanto piu’ che per la maggior parte dei capitoli si opta per un’inquadratura fissa entro la quale, teatralmente, si svolge la micro-vicenda di cui siamo testimoni (altro procedimento cui il regista è affezionato sin dal suo primo lungometraggio, intitolato non a caso Nove scene).
Dietrich e Anna Brüggemann scelgono di raccontare i tredici capitoli della storia rifiutando la freddezza e l’anaffettività che connotano i film di alcuni loro colleghi e compatrioti sulla stessa tematica e ritornando, piuttosto, all’umorismo nero a cui avevano già attinto con successo nei loro lavori precedenti, dimostrando però in questo caso decisamente piu’ affetto ed empatia nei confronti dei loro personaggi e non disdegnando anche alcuni ironici interludi – forse le parti piu’ brillanti e divertenti del film – dove, per concretizzare le paure e i chiodi fissi dei protagonisti, l’atmosfera si fa onirica e surreale. Soprattutto in questi momenti non si contano le strizzate d’occhio ai piu’ disparati realia odierni, che qualsiasi spettatore non solo tedesco, ma anche europeo tra i 30 e i 40 anni non potrà che percepire come estremamente familiari, con una catartica risata sotto i denti: l’inettitudine dei quarantenni attribuita all’influenza nefasta dei genitori settantenni e della loro pedagogia severa ora messa completamente in discussione; la passione per la medicina alternativa; i matrimoni con il bouqet e l’abito bianco ormai disertati dalle coppie etero, ma ampiamente frequentati da coppie con due spose o due sposi che finalmente possono celebrare delle vere nozze; i dibattiti sul ruolo del padre nella famiglia occidentale, ancora troppo legato a vecchi stereotipi; e poi i costosissimi seminari di life coach dalla dubbia efficacia per capire cosa si vuole davvero fare nella vita; la sensazione del tempo che, misurato dalla crescita dei figli piccoli, corre ancora piu’ velocemente; per non parlare dell’accettazione inconsapevole della triste routine che si consolida dopo una relazione pluriennale (come sostiene il caustico dentista di Michael in una delle scene del film che piu’ virano verso una comicità grottesca, “quello che è morto non ti può fare male” – e non si riferisce solo ai denti ormai insensibili del protagonista…).
Il titolo del film è una contrazione colloquiale del “Nein” tedesco, che nell’intonazione allungata e perplessa del “Nö” non sta a significare una negazione netta, ma lascia trasparire una certa ambiguità che solo il contesto può aiutare a decifrare. Proprio Dina pronuncia questo monosillabo all’inizio del film, quando Michael la interroga sul peso delle divergenze nei loro piani per il futuro, prima che, ma i personaggi ancora non lo sanno, a questo futuro sia data effettivamente forma, senza però un happy end a mettere un punto finale. Difficile rispondere con un “sì” o un “no” che non lascia dubbi: forse l’unico punto saldo nella frastagliata esistenza delle famiglie non nucleari di oggi sono i ricordi di quello che comunque non si deve rimpiangere, come ci suggerisce l’ultimo capitolo e unico flashback di una storia che era sempre proceduta in ordine cronologico. Il finale può ricordare CinquePerDue – Frammenti di vita amorosa di François Ozon, altra storia “a tappe” di una coppia e della sua graduale dissoluzione, ma in quel caso raccontata tutta a ritroso: anche qui la fine del racconto è l’inizio della relazione. Ciò che è stato e che, per fortuna o purtroppo (ma qui sicuramente per fortuna), resta.