Attorno alla fine del Settecento, un nobiluomo francese si perde in una foresta dei Balcani mentre infuriano le battaglie tra le popolazioni locali e l’Impero ottomano. Trovato rifugio nella dimora isolata di una famiglia di contadini del posto, scopre ben presto segreti inquietanti che, forse, non sono solo credenze e superstizioni…

Il conte Aleksej Konstantinovič Tolstoj (1817-1875), lontano parente del ben più celebre Lev, è tradizionalmente ritenuto il padre del genere gotico in terra russa. Senz’altro è colui che per primo, in Russia, ha contribuito a conferire un ruolo di rilievo anche nella letteratura cosiddetta ‘alta’ alla figura del vampiro (o meglio upyr’ o vurdalak, se vogliamo impiegare i termini autoctoni), in precedenza appannaggio di leggende e canti popolari.

Dalla penna di Tolstoj, che da buon nobiluomo russo del tempo era perfettamente bilingue e scriveva sia in russo che in francese, è uscita un’intera trilogia unita dalla tematica vampiresca: appunto la novella La famille du vourdalak (1838), ma anche il racconto Le Rendez-vous dans trois cents ans (1839-40) e il romanzo Upyr’ (1841). La prima parte di quest’ideale trittico ha avuto particolare fortuna al cinema, innanzitutto alle nostre latitudini: ricordiamo infatti le celebri versioni per lo schermo del pioniere dell’horror all’italiana Mario Bava (uno degli episodi dei Tre volti della paura, 1963) e Giorgio Ferroni (La notte dei diavoli, 1972, dove l’azione veniva trasposta nella campagna italiana degli anni ’70).

In Russia il film ha trovato la sua trasposizione cinematografica solo alla vigilia del crollo dell’URSS, quando il genere horror, in precedenza messo al bando, si è ricavato finalmente (e prepotentemente) spazio: in Sem’ja vurdalakov (1990) di Igor’ Šavlak e Gennadij Klimov, con una scelta analoga a quella di Ferroni, il soggetto è adattato attraverso il filtro della contemporaneità, dunque l’ambientazione è spostata negli anni ’90, che vedono contrapporsi un giornalista moscovita e una famiglia della remota provincia russa, nella tendenza pressoché globale all’avvicinamento del vampiro ai realia della vita quotidiana. In quest’ulteriore lavoro ispirato alla novella russa e presentato all’interno della Settimana della Critica di Venezia 80, l’artista e performer francese Adrien Beau, qui al suo debutto alla regia, ritorna invece al Settecento della novella, seppur rarefatto e stilizzato (l’atmosfera è davvero da classica e quasi anacronistica fiaba dell’orrore) ed esaspera programmaticamente un tratto proprio anche dell’opera letteraria originale.

Aleksej Tolstoj, infatti, che nel successivo Upyr’ avrebbe rappresentato i vampiri come i membri di un’altolocata famiglia moscovita ben integrata nell’aristocrazia dell’epoca e in tutto e per tutto indistinguibile da essa, nella Famille du vourdalak insiste invece sul classico contrasto tra la voce narrante (un marchese parigino legato all’Ancien Régime, e non a caso la cornice in cui la storia viene raccontata è quella del Congresso di Vienna, preludio alla Restaurazione) e l’ambiente ‘selvaggio’ dei Balcani, sintetizzato nella famiglia di contadini che, nelle loro pratiche quotidiane e nelle loro tradizioni prima ancora che nel rivelarsi dei vampiri, rappresentano l’assoluta alterità rispetto a colui che si ritiene un esponente della ‘civiltà’ europea. E anche Adrien Beau, nel mettere in scena la novella, calca la mano sulla discrasia tra l’aristocratico parigino incipriato e imbellettato, con la parrucca, il tricorno, le pose affettate e i leggiadri passi di minuetto, e la famiglia di contadini balcanici, con i loro vestiti e gioielli tradizionali, le maniere ruvide e la diffidenza nei confronti del ‘forestiero’.

In particolare (e l’intensa scena della danza tra i due ne è una prova), il regista si concentra sul rapporto tra il marchese e Zdenka, figlia del pater familias trasformatosi in vurdalak dopo essere rimasto ucciso in battaglia dai turchi: se nella novella la relazione che intercorreva tra i due personaggi era più che altro una variazione sul tema del fascino esercitato dalla donna esotica (in un certo senso ‘orientale’) sul conquistatore occidentale in cerca di avventure, qui diventa il simbolo centrale dell’incontro/scontro tra modi di essere, tra due visioni del mondo entrambe, per ragioni differenti, chiuse e limitanti.

Il marchese, imbattendosi con l’elemento arcano, si ritroverà costretto a fare tabula rasa dell’artificioso galateo della corte di Francia e del razionalismo dell’Età dei lumi; Zdenka, vagamente simile a una strega, dovrà ribellarsi a un patriarcato di cui, in fondo, è emanazione la stessa credenza slava relativa al vurdalak, il quale altro non è che un familiare defunto (spesso di morte violenta, o comunque caduto preda di forze maligne) che ritorna al focolare domestico sotto forma di morto vivente e trascina inevitabilmente con sé i suoi cari, succhiandone il sangue e trasformandoli in suoi simili quasi ad accentuare il legame indissolubile che li avvince e li soggioga, prima e dopo la morte.

Tra lumi di candela alla Barry Lyndon e grand guignol finale, titoli di testa in caratteri gotici che fanno il verso agli horror d’antan e creature mostruose con le fattezze di inquietanti marionette, questo debutto di notevole impatto visivo costituisce dunque un’interpretazione della novella che risale alle sue radici per svilupparne gli spunti, con un occhio estetizzante com’era da aspettarsi visto il background del regista.

In chiusura, non si può non notare come i personaggi dai canini sporgenti siano una presenza fissa in laguna a quest’ottantesima edizione della Mostra del cinema: tra il Pinochet succhiasangue di El Conde (in concorso) e l’ulteriore tappa nel programmatico processo di umanizzazione del vampiro offerta dal tragicomico Humanist Vampire Seeking Consenting Suicidal Person (Giornate degli Autori), le innumerevoli declinazioni della tematica vampiresca 2.0, onnipresenti tra grande e piccolo schermo, risultano ulteriormente arricchite.