Nella remota Islanda tutto appare immobile e immutabile nello scorrere del tempo e delle stagioni: così sembrano indicare i primi fotogrammi di questo film. Ma quando qualcosa si muove, è subito travolgente come l’eruzione di un vulcano, altro simbolo dell’isola, lontano, nello sfondo.
Ingimundur è un signore di mezza età. Si definisce uomo, padre, nonno, poliziotto e vedovo: in effetti la vicenda lo riprende in ognuna di queste situazioni: uomo ancora aitante, padre disponibile, nonno premuroso della piccola Salka, poliziotto al momento in congedo e vedovo pieno di inquietudini per la perdita improvvisa della moglie, precipitata con l’auto da una altissima scarpata. Tanto turbato da essere in cura, paziente alquanto recalcitrante, di un noioso psicologo che tenta di fargli elaborare il lutto: “Hai mai pianto, ti sei sfogato, hai urlato?” – gli chiede il terapista.
Sarà invece ciò che trova tra gli oggetti appartenuti alla defunta che scatenerà nell’uomo una reazione a catena che scioglierà i nodi del suo animo. Un percorso però disseminato di eccessi e violenza.
Molto intensa la recitazione di Ingvar Sigurðsson (Ingimundur) e di Ida Mekkín Hlynsdóttir, la perspicace nipotina Salka. L’incredibile paesaggio islandese fa da straordinario sfondo naturale alla quotidianità e ai turbamenti del maturo vedovo.
Questo dramma “noir” è il secondo lungometraggio del trentacinquenne islandese Hlynur Pálmason, che si era imposto a Locarno nel 2017 con il suo primo lungometraggio, Winter Brothers. La giuria del 37° Torino Film Festival ha assegnato nel 2019 a questa pellicola il premio per il miglior film, ancora una volta un film del nord Europa, come nel 2018 è stato per il danese – svedese “Il colpevole” di Gustav Möller.