Nell’Ucraina dei primi anni Novanta era particolarmente complicato farsi largo in un mondo senza regole in cui i vecchi principi sovietici non valevano più e lo Stato si era dissolto. Come tanti altri suoi coetanei, il giovane Vladimir, chiamato “Rinoceronte” per la sua stazza fisica e per i suoi modi spicci, decide di intraprendere quella che forse è la carriera più semplice e redditizia: il crimine.
La prima cosa che vorremmo dire sul terzo film di Oleh Sencov è che esso ci conferma in modo definitivo che la sua liberazione dalle prigioni russe non è soltanto un atto di giustizia, ma soprattutto un motivo di gioia per il recupero di un ottimo regista.

La sua vicenda è ben nota: dopo il Majdan ucraino, da lui fortemente sostenuto e condiviso, sulla base di accuse poco chiare Sencov si era ritrovato nel novero dei prigionieri politici che il regime putiniano aveva forzatamente condotto in Russia, come uno degli effetti collaterali della propria politica estera di aggressione. Molti di quei prigionieri sono ancora nelle carceri russe, e Sencov è molto attivo per sensibilizzare l’opinione pubblica e manifestare il proprio sostegno incondizionato per coloro di cui fino a poco tempo fa condivideva la sorte (ricordiamo bene la sua liberazione, avvenuta proprio nei giorni della Mostra di Venezia del 2019, il 7 settembre). Sencov, dunque, crimeano di Simferopol’, ha rischiato di vedere interrotta a lungo o distrutta per sempre la propria carriera artistica, a causa di una condanna spropositata a venti anni di reclusione che gli era stata originariamente comminata. Infinite le azioni pubbliche che sono state intraprese a suo sostegno durante la sua prigionia, le petizioni, le dichiarazioni di importanti registi a favore della sua liberazione (Aleksandr Sokurov, Ken Loach e Bela Tarr fra gli altri), gli interventi da parte dei festival cinematografici: soprattutto il Festival di Berlino è stato attento al suo caso, mostrando ad esempio la sua vicenda giudiziaria, così come essa è narrata in The Trial: The State of Russia vs Oleg Sentsov di Askol’d Kurov, ma fra gli altri non posso che ricordare con piacere anche il sostegno espresso chiaramente dalla SIC-Settimana Internazionale della Critica, guidata ottimamente da Giona Nazzaro, e di cui, con somma modestia, avevo l’onore di essere membro.
Come epifenomeno della propaganda anti-ucraina, erano anche circolate accuse e commenti ironici sui canali mediatici pro-cremliniani sul fatto che comunque “non avevamo perso un gran regista”…; troppo facile, comunque, giudicare un giovane autore sulla base di un unico film, quel Gamer (2011), che comunque era passato al festival di Rotterdam, era stato recepito con favore ed interesse, e in cui Sencov illustrava con bell’equilibrio fra fiction adolescenziale e “cinema del reale” le aspirazioni di un giovane giocatore di video games alla scoperta del mondo e dei propri limiti. La sua opera seconda (Numbers, 2019) egli dovette invece girarla per interposta persona, grazie al tramite di Achtem Seitablaev, regista tataro di Crimea già autore del primo film sulla deportazione del suo popolo ad opera di Stalin (Hajtarma, 2013), che “prestò le sue mani” a Sencov ancora prigioniero, facendosi da esecutore delle sue indicazioni a distanza e finendo con il creare un’interessante distopia totalitaria basata su una sua omonima pièce teatrale. Anche questo film ha avuto la sua premiere a Berlino, mentre da noi in Italia è stato presentato al Trieste Film Festival.
Dopo questa doverosa premessa, sembra quasi “una sorpresa” o un elemento secondario che Rhino (in ucraino “Nosorih”) sia un film di notevole potenza narrativa e dimostri ottime qualità registiche. Perché questo è, uno dei migliori film ucraini degli ultimi anni, in cui scopriamo finalmente nella sua pienezza un autore che si è nutrito di grande cinema internazionale, che utilizza il linguaggio registico con discreta maestria (a tratti con notevole e temeraria originalità, come nell’incipit), e che non si è fatto divorare dalla propria vicenda personale. Insomma, un giovane autore che non dimentica, ovviamente, esperienze di violenza e sopraffazione, ma che ha deciso di parlare primariamente con la lingua del cinema.

Questo Rhino, si potrebbe dire, è una versione ultra-romantica e oscura di Goodfellas di Scorsese, in cui il protagonista, versione muscolare e gonfiata di Ray Liotta, narra e ricostruisce la sua ascesa da piccolo ladruncolo di strada a criminale-picchiatore che cerca di fare il grande salto, mettendosi testa a testa contro i boss della città. Questa sfrontata aggressività da carro armato, questa continua e incessante aggressione frontale della vita, questo tentativo quasi inerziale, inarrestabile, automatico, si direbbe, di mordere la realtà e di prendere fette sempre più grosse della torta delle ricchezze post-sovietiche è alimentato da un immaginario adrenalinico che tappezza la scenografia e i costumi (si va da Stallone a Bruce Lee), e trova un’incarnazione perfetta in Serhij Filimonov, “armadio con un’anima”, ora attivista sociale, ma già in passato volontario delle truppe ucraine nella guerra in Donbass. Una presenza scenica quadrata e tetragona, un non-attore dalle esperienze di vita complesse e battagliere, dunque, che ben trasmette quella disposizione avventata e destinata alla catastrofe che segna il suo personaggio fin dall’inizio.

L’incipit, si diceva: Sencov ci stupisce, lasciandoci a bocca aperta con una sequenza ad episodi lunga una dozzina di minuti, in cui con tagli di montaggio invisibili e formidabile fluidità nella gestione degli attori e delle varie stanze di una casetta ucraina dai colori pastello, riesce a condensare in un unico grande micro-blocco narrativo un passaggio generazionale, un hand-over politico da URSS a Ucraina indipendente come se fosse un caleidoscopio di persone e micro-eventi, una giostra in rotazione sull’asse del focolare familiare. In questa sequenza iniziale egli mostra meglio di diversi libri di storia, e facendo a meno di pedisseque introduzioni con voice-over, le radici naturali del dissesto familiare e sociale dei paesi post-sovietici, in cui padri maneschi ed ubriachi, madri impotenti e istituzioni assenti non lasciavano ai giovani nati in quel torno di tempo molte altre soluzioni se non l’arruolamento militare o la via del crimine locale. “Rinoceronte” opta per la seconda strada, e prende letteralmente a testate il mondo che lo circonda, facendosi simbolo del passaggio vorticoso e sanguinario fra fine anni Ottanta e primi anni Novanta, in cui la legge della giungla era l’unica Costituzione realmente funzionante.
Sencov lavora di accumulo (ma senza mai creare confusione); illumina gli atti criminali con toni disperatamente romantici, quasi esistenzialisti (ma non per questo assolutori); immerge le imprese feroci dei suoi “drughi” in filtri corruschi ocra e viola, correlativi del sangue, ma anche delle polveri velenose che aleggiano nella loro città industriale; usa gli stilemi di genere, dal gangster movie alla cosiddetta “cernucha”, macro-genere russo degli anni Novanta in cui violenza, aspetti tragici ed estremi della vita venivano dispensati con compiacimento iper-realista e senza offrire vie di scampo. Ma anche per quel che concerne i cliché di genere degli anni Novanta russi e ucraini, il regista di Simferopol’ non rimane schiavo di un superficiale appagamento performativo. Le scene di violenza estrema, le torture, i crimini in quantità industriale non sono qui espressione di una superficiale (o tanto meno nostalgica) rievocazione degli stereotipi di qualche decennio fa, né puro esercizio di estetica gore, ma diventano una inevitabile realizzazione estrinseca, una necessaria messa in atto del destino obliquo e malnato del protagonista. Egli non può che realizzare atti coerenti con la sua natura, con la sua (mancanza di) educazione, con la sua formazione nei vicoli insanguinati. Il suo destino è piegato in partenza, “storto”, come dice anche il nome della città in cui gli eventi si svolgono, Kryvyj Rih, ossia “corno storto”.
Questo destino diretto su un piano inclinato, questa condanna irreparabile che costringe Vladimir-Rinoceronte a piangere la morte degli amici e dei suoi cari, ad essere quasi crocifisso come un Cristo di quartiere malfamato, a cercare una illusoria via di fuga nella fredda ed esangue Europa occidentale dà vita a una storia dal finale già scritto di cui il criminale cerca disperatamente di reperire una morale. Durante una serie di malefatte e pestaggi in sequenza nella colonna sonora sentiamo urlare gli Agatha Christie, gruppo rock russo di culto: “Sono un porco bello sazio / Sto steso in una sudicia pozzanghera / Ma tu non toccarmi / Questa pozzanghera è mia”. La presa di coscienza di trovarsi ad operare il male fatalmente, quasi per motivi indipendenti dalla propria volontà, questa consapevolezza di essere destinato ad un’esistenza vissuta fino alla fine in una pozza di sangue e feci risveglia, se non proprio un chiaro rimorso, almeno una domanda esistenziale, un dubbio, perfino un’utopia paradisiaca, in cui tutti siano felici e forti, e di cui lui stesso garantirà il funzionamento. Da qui la conversazione con un personaggio misterioso che incornicia le memorie di questo condannato a vita: che il suo ascoltatore sia un Angelo della Morte? Il Diavolo sotto mentite spoglie, un agente del KGB? Un messaggero divino? La confessione fredda, ostinata, lancinante che fa da cornice alle avventure di strada di “Rino” è solo la premessa di un finale senza scampo: il tentativo di espiazione, di sacrificio definitivo assume in fondo toni pasoliniani. Sembra infatti che il gigante picchiatore si accasci alla fine come un “Accattone” post-sovietico, pugnalato per strada per sua stessa volontà, per brama di auto-punizione, finalmente liberato dal peso delle sue pene, e pronto a dire il suo “Ah, mo’ sto bbene”…