C’è qualcosa di familiare e allo stesso tempo inconoscibile negli sconfinati spazi americani. Deserti, praterie, montagne che portano con sé una forza primigenia e restituiscono a noi piccoli uomini il senso della misura delle cose. Dopo lo splendido The Rider, è tra questi orizzonti che Chloé Zhao torna a confrontarsi con la Natura (soprattutto umana), alla ricerca del senso della vita.
Ispirato al romanzo-reportage Nomadland. Un racconto d’inchiesta di Jessica Bruder (Edizioni Clichy), Nomadland contempla la storia di Fern (come sempre, una monumentale Frances McDormand) e del suo furgone-casa mobile, inseparabile compagno dei suoi spostamenti attraverso lo sconfinato West americano. Morto il marito, chiusa la compagnia in cui lavorava e desertificata la città in cui vivevano (la chiusura dell’azienda attorno alla quale era stata costruita l’ha fossilizzata in un attimo, facendola diventare fantasma), Fern molla tutto e si mette on the road, inizialmente per trovare lavoro.
Ne trova alcuni, precari. Ma la crisi non perdona e deve di nuovo mettersi in marcia. Lungo la strada, tra aree di sosta, campeggi e lunghe distese terrose, incontrerà altri moderni nomadi impegnati non a scappare da qualcosa bensì a spostare il baricentro delle proprie priorità attraverso uno stile di vita diverso. Così il lavoro diventa solo una parte del tutto, e l’esigenza di tornare a spostarsi inizia ad assumere un significato più ampio e sereno anche per Fern.
Nomadland è un film sulla rinascita. Arriva al momento giusto, nel posto giusto. In concorso alla Mostra del Cinema di Venezia (ma anche, quasi in contemporanea, a Toronto, Telluride e New York e già in predicato per gli Oscar), testimonia il ritorno a un cinema di cui non possiamo fare a meno, e allo stesso tempo unisce simbolicamente il mondo dei festival, che mai avevano collaborato così direttamente. Ma con ancora più forza, Nomadland ribadisce la necessità di cambiare, di ripensare uno stile di vita troppo individualista in favore dell’empatia, della semplicità, della solidarietà reciproca.
È un viaggio nell’America profonda, messa a dura prova dalle crisi. Ma non è il solito Midwest trumpiano e arrabbiato, qui non c’è spazio per il livore e la disperazione. A dominare la scena è lo spettacolo del paesaggio e la dignità delle persone che si incontrano lungo la strada: Linda May, Swankie, Bob Wells sono profeti di un mondo in cui è più gratificante ascoltare e non parlare, contemplare e non sfruttare.
L’indiscutibile sensibilità registica, e umana, di Chloé Zhao esalta la compassione e la condivisione delle esperienze dei protagonisti, personaggi reali e non attori, veri nomadi contemporanei. L’istinto documentaristico si contempera sapientemente con le scelte narrative, in particolare grazie all’abilità di Frances McDormand e alla sua interpretazione naturalistica. Lo spaccato di un’America alternativa emerge e coinvolge e, nonostante l’uso un po’ ripetitivo delle meraviglie della natura – su tutti, ineffabili albe e tramonti – e una colonna sonora dal piglio retorico di Ludovico Einaudi, Nomadland è il film che aspettavamo, nel momento in cui ne abbiamo più bisogno.