Per qualche strana ragione sembra che quando i grandi autori si confrontano con il musical, genere con un pubblico trai più settoriali e abituali, ne esca fuori tutto fuorché un musical, lasciando spazio a reinterpretazioni che si rivelano però sempre molto interessanti. Si era già accennato a uno di questi casi, citando l’antesignano della categoria Dancer in the dark di von Trier, mentre si scriveva dell’ultima fatica di Lav Diaz, Season of the Devil.

Per carità, in Jeannette la musica c’è davvero, la sovversione delle regole operata da Dumont è di un altro tipo. Ne emerge infatti più che uno smembramento logico-narrativo (von Trier) o una decostruzione formale (Diaz), un lavoro di sottrazione sull’armonia e la spettacolarizzazione – in generale, non solo per quanto concerne l’archetipo. Non a caso Dumont, giunto con la presente pellicola in seconda cifra, va a scomodare, rielaborando una parte degli scritti del poeta ottocentesco Péguy, la figura per certi versi fondativa della pulzella d’Orléans, qui colta nel suo fervore religioso di bambina di otto anni, Jeannette appunto, ma anche nella parodia veicolata in qualità di eroina proletaria che si ribella all’invasione inglese andando a codificare così uno dei maggiori riferimenti identitari della cultura francese.

Giovanna d’Arco non si vedeva al cinema da un bel po’ di tempo, da un certo numero di anni è esclusivo appannaggio degli sceneggiati della tv francese, spinti in special modo dalla destra per ovvi motivi. Dumont qui riesce a gettare un nuovo sguardo su un nome così altisonante, abbandonando tutti i precedenti, dal Processo a Giovanna d’Arco di Bresson alla Passione di Dreyer – registi con cui il regista francese rimane indebitatissimo – lavorando sul livello della sovrapposizione tra forma e figura. L’idea del musical non si può dire sia un’invenzione (basti ricordare Rossellini), ma inizia a potersi fregiare di tale status quando il lavoro di destrutturazione dello straordinario portato avanti da Dumont rivela l’ordinario (e l’umano, troppo umano), spogliando una Giovanna bambina di tutte i suoi tratti storici, ideologici, propagandistici etc. nello stesso modo e allo stesso tempo in cui viene spogliato il genere musicalJeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc non può essere detto affine ai film succitati, in special modo in quanto commedia e più in generale proprio per il suo essere opposto al musical tipico, non solo un suo riarrangiamento, nel contrastare l’idea dello spettatore in merito. Non ha senso ripercorrere quanto la figura dello spettatore sia una parte fondamentale e intrinseca di tutto il percorso cinematografico dell’ex-professore, o la sua idea reygadasiana di film insussistente se non nel momento in cui si guarda (forse questa è una delle caratteristiche che permette di inserirlo senza tentennamenti nel ramo del cinema contemplativo), però qui è impossibile comprendere la messa in scena senza farne menzione. Di pari passo con la – possiamo permetterci di dirlo – ridicolizzazione della figura di Giovanna d’Arco, procede anche lo s-montaggio dei lemmi del musical in quanto tale, cioè personaggio e relativa disamina vanno interamente a combaciare con il mezzo che permette la loro presenza.

Jeannette è tanto divertente e fuori luogo quanto lo è il lavoro di accetta di Dumont sull’archetipo filmico: il sonoro, e quindi anche la musica, in presa diretta, è performata in loco live appena fuori dal raggio d’azione della macchina da presa da Igorrr, curioso elemento che dà vita a una colonna sonora che ondeggia tra rock, metal e tecno. Questo è il primo elemento di disarticolazione, insieme all’ingaggio di Decouflé per l’organizzazione dell coreografie, che apre la strada a un musical senza tempi scenici, scarnificato e ridotto all’osso rispetto a quanto vorrebbe lo stereotipo; in più di un’occasione infatti le pecore intervengono a ricordarci che ci troviamo in una situazione volgare e povera, svolgendo di fatto il ruolo dei contrappunti coreutici. A tutto ciò seguono alcune forzature di finzione scenica, come lo zio rapper dedito a una improponibile dab-dance e più giovane della stessa protagonista, le esasperazioni concettuali dei canti e dei dialoghi, concettualmente complessi e spesso menzionanti le più grandi questioni teologico-metafisiche (solo in questo ricorda Season of the Devil), e le varie follie sceniche, dalla suora bicefala fino ai tre angeli travestiti da Cugini di campagna.

Questo gioco di altari e contraltari attraverso la figura di Jeannette prende in giro una nazione intera e il modo di pensare occidentale, a partire dall’ovvio parallelismo tra l’avanzata dell’esercito inglese e la retorica dell’invasione in ambito migratorio. Si ridicolizza la cieca convinzione, attraverso una messa in scena volutamente scarna, dell’agire non tanto in nome di Dio – sarebbe una banalità – ma di quel tipo di “agire-come-se-fossimo-nel-nome-di-Dio” (cfr. Bruno Dumont), della politica ormai fagocitata dalla società dello spettacolo (qui negato vigorosamente a ogni piè sospinto), del piegare la realtà a una logica binaria che permetta un’identità precisa in un mondo liquido, dell’approvazione tout court del reale, della legge del più forte riapplicata nel neologismo “competitività”, dell’ignoranza che lo stesso regista intende in un significato molto più ampio, e via dicendo. Ma tutto questo passa, e deve passare, in secondo piano (nonostante l’importanza) rispetto alla devozione di Dumont alla macchina del cinema come forza espressiva dell’immagine, al di là di una rozza bipartizione forma-sostanza.

L’immagine può, e forse, di nuovo, deve essere spogliata di tutti i suoi componenti poiché a ogni modo è esperibile nella sua primordialità solo in virtù della macchina da presa in funzione. La blasfemia non sta tanto nel ridere del fervore religioso et similia, ma nel rinunciare, nell’infangare il concetto di scenografia, nell’affermare la finzione in essenza della sue condizioni usuali di possibilità. Il vero fervore di Jeannette è quello radicato nel suolo, quello che le fa pestare fino allo sfinimento i piedi sulla sabbia e sulla terra, al contrario del naturale levitare degli angeli e del fenomeno di cui sopra, ovverosia le divinità moderne, senza radicamento e quindi libere di volare: queste sono le vere blasfemie, quelle del tempo coerente, cronologicamente univoco e universale che disegna spazi circoscritti e catalogati per funzione appiattendo il cinema alla narrativa, l’immagine alla storia.

In definitiva, con Jeannette, l’enfance de Jeanne d’Arc, si tratta poi di un prosieguo di quel terzo percorso dumontiano più volte menzionato altrove, quello comico e grottesco, ma qui, eccezion fatta per le cadute slapstick dello zio-bambino nei momenti più importanti, e una seconda parte più breve – quella di Jeanne, non più Jeannette, ormai cresciuta – di natura distensiva nella sua ultima mezz’ora scarsa che “incarta” più che altro i meravigliosi novanta minuti che la precedono, impreziosendoli, non ci troviamo nella dimensione scherzosa, ludica che s’era vista in P’tit Quinquin e, con risultati più altalenanti, in Ma loute, ma di un atto programmaticamente ideologico nel significato del cinema contemporaneo.