Esordio al lungometraggio di finzione dell’afgana Sahraa Karimi – già autrice del doc Afghan Women behind the Wheel (2009) – presentato nella sezione Orizzonti, Hava, Maryam, Ayesha è un trittico anonimo e scipito, un film di denuncia di pura facciata che perde il merito dei suoi nobili intenti a fronte di un utilizzo ingenuo e quasi svogliato del mezzo cinematografico.

Le protagoniste del titolo non si conoscono ma condividono un destino comune: Hava è confinata in casa a badare ai suoceri, Maryam non sa come divorziare dal marito infedele e Ayesha deve rassegnarsi a un matrimonio combinato. Tutte e tre sono incinte e intrappolate nella medesima prigione: la città di Kabul.

Hava, Maryam, Ayesha-Sahraa Karimi

Nell’analizzare opere del tenore di Hava, Maryam, Ayesha, il tema centrale costituisce una lama a doppio taglio: sia in caso di lode che di biasimo infatti si può finire per esprimere un giudizio che poggia solamente sulla bontà degli ideali – pretestuosamente femministi alla The Perfect Candidate, per fare un esempio di questo Concorso – che questo propina, o viceversa venire tacciati di essersi lasciati influenzare in tal senso nella propria valutazione. Partiamo subito quindi col dire che l’opera prima di Karimi ha dalla sua la forza della necessità e dell’urgenza storica, in una fase in cui la parità di genere pare ancora fantascienza in quadranti del mondo – Medioriente in particolare – dove anni di conflitti hanno rallentato il processo di secolarizzazione e democratizzazione della società.

Ferma restando questa presa di coscienza, bisogna comunque riconoscere che la regista non riesce a mandare a segno nessun affondo al patriarcato né – se questo era il suo piano B – a suscitare una reazione empatica nello spettatore: i tre ritratti di donna sono di fatto quadri statici che, al di là di qualche nota anagrafica, non tentano nemmeno di dare un’identità definita ai propri soggetti, condannandoli a quella stessa impersonalità che il j’accuse di Karimi ascrive all’oscurantismo maschile.

Hava, Maryam, Ayesha-Sahraa Karimi

Senza riuscire a contrapporre un’immagine positiva – non in senso etico ma etimologico, ovvero di “porre qualcosa in essere” – del gentil sesso all’androcentrismo imperante, l’autrice consegue il solo scopo – certo indesiderato – di condannare chi guarda al supplizio dell’attesa, condendola con un indigeribile infodump e rinunciando in partenza all’apporto della drammaturgia che pure avrebbe permesso di raccontare una storia: si sarebbe in parte sottratta alla propria vocazione realista, ma almeno avrebbe lasciato dietro di sé qualcosa su cui riflettere.

Di Hava, Maryam, Ayesha invece non resta nulla, se non uno sguardo da insider sulla vita delle giovani donne afgane: a questo punto non si capisce però la necessità di passare dal cinema del reale alla fiction, quando un documentario sarebbe stato senz’altro più d’impatto.