Lontano dall’Italia da qualche anno, durante i quali ha ulteriormente cementato la propria reputazione all’estero con le coproduzioni internazionali ZeroZeroZero (2019), serie tratta dall’omonimo romanzo-inchiesta di Roberto Saviano e presentata a Venezia76, e l’esclusiva Amazon Prime Video Without Remorse (2022), Stefano Sollima è tornato metaforicamente e letteralmente a casa con la sua ultima fatica, nuovo tassello dell’epopea criminale ambientata nella Città Eterna che dovrebbe idealmente chiudere la sua trilogia romana. Ma nonostante la prestigiosa vetrina del Concorso, Adagio sembra aver davvero poco da dire, limitandosi al più a ripetere la formula dei suoi predecessori – scordandosi peraltro qualche pezzo per strada.

Adagio

In una Roma infernale prostrata dal caldo torrido, dagli incendi boschivi e dai blackout a macchia di leopardo, il liceale ManuelGianmarco Franchini –, figlio di un ex boss della Magliana – interpretato dall’onnipresente Toni Servillo –, è costretto a cedere al ricatto di alcuni carabinieri corrotti, che gli ordinano di effettuare scatti compromettenti a una festa frequentata da personalità politiche. Una volta esaurito il suo compito, però, Manuel decide di darsi alla macchia, dando il via a una caccia all’uomo da parte degli agenti. Cercando rifugio presso i vecchi compagni d’arme del padre, il giovane troverà un’inaspettata mano tesa nella persona del cosiddetto “Cammello” – un altrettanto onnipresente Pierfrancesco Favino –, il vecchio numero due della banda che più di tutti avrebbe ragione di odiarlo.

Uno dei pochi autori nostrani effettivamente a sua agio con le modalità produttive e i canoni estetici d’Oltreoceano – vedi Soldado (2018) –, Sollima torna infine sul luogo del delitto che gli regalò la fama nel lontano 2008 con Romanzo criminale, una delle poche produzioni televisive italiane che possono fregiarsi del titolo di “serie” a tutto tondo, lontana anni luce dalle logiche telenovelistiche che fino all’avvento delle piattaforme di streaming hanno ingabbiato il panorama del racconto sul piccolo schermo. Con Suburra (2015), poi, aveva fatto il bis, riuscendo a concentrare in poco più di due ore un trentennio di storia italiana in forma di epopea criminale, con tanto di coinvolgimento della Santa Sede. Adagio, invece, come per certi versi lascia intuire il titolo, abbandona il ritmo dei predecessori, configurandosi come un film decisamente più autoindulgente, dove la passione per l’architettura dell’intreccio sembra aver ceduto il posto a uno sguardo quasi affettuoso sulle belve umane che popolano il sottobosco malavitoso dell’hinterland romano.

Eccezion fatta per qualche espediente interessante, quale i continui blackout e gli incendi che lambiscono i confini della capitale – espressione tangibile del carattere infernale della stessa, una sorta di girone dal quale è diventato impossibile fuggire, a causa degli ingorghi e dei guasti alle linee ferroviarie –, la rappresentazione dei bassifondi di Roma obbedisce senza variazioni a quel canone che Sollima stesso ha contribuito a fondare, e che però ormai si è ridotto a semplice convenzione, con i suoi cavalcavia tentacolari, gli interni fatiscenti sprofondati nella penombra anche in pieno giorno, il feticismo per le scene notturne con il gioco di ombre creato dalle sparute luci elettriche dell’illuminazione pubblica. A ciò si aggiunge un comparto attoriale frutto di scelte di casting sicuramente azzeccate per il richiamo del pubblico – giacché lo spettatore medio raramente si trascina ad acquistare il biglietto senza la garanzia di un grande nome in locandina –, ma che non sempre risulta coerente con l’atmosfera, come il già citato Servillo nei panni del vecchio boss o il trio di carabinieri – capitanato da Adriano Giannini – in cerca di soldi facili.

Prevedibile e stanco nel suo incedere, Adagio abbandona le ambizioni di commento sociale che avevano contraddistinto la filmografia precedente di Sollima, a partire dal suddetto Romanzo criminale – compendio eloquente della stagione degli anni Settanta, per quanto ovviamente con le cautele imposte dalla natura del prodotto – fino ad A.C.A.B. (2012) – film-j’accuse che ripercorre uno dei più recenti traumi collettivi della nostra democrazia –, rinunciando al contempo alla crudezza tipica del genere che, se non altro, avrebbe potuto rendere più intrigante l’esperienza di visione. Quello che resta è insomma solo uno sguardo languido sui senili e impotenti capiclan, della cui grandezza non resta che l’ombra.